BREVE STORIA DEL JAZZ
GLI STILI
- RAGTIME
- NEW ORLEANS
- DIXIELAND
- CHICAGO
- SWING
- BE-BOP
- COOL
- HARD-BOP
- MODALE
- FREE JAZZ
- JAZZ ROCK
- FUSION
- ACID JAZZ
- Albums consigliati
1 -RAG TIME
Impropriamente molti storici fanno rientrare negli stili
jazzistici il ragtime. Diciamo impropriamente, perché al
ragtime manca una delle caratteristiche essenziali del
jazz: l’improvvisazione. Il ragtime è infatti frutto della
composizione ed è musica scritta essenzialmente per
pianoforte. Quello che lo avvicina al jazz è il senso del
ritmo: lo swing e la comune derivazione afro americana.
Lo avvicina al jazz, infatti, il fatto di essere una musica di
immediata derivazione nera. Il suo repertorio è
immensamente vasto e raccoglie oltre ai temi originali,
composti dai suoi esponenti più qualificati, melodie che
derivano dalla musica occidentale tanto bandistica che
classica, da Schubert a Chopin, dalla marcia al valzer, il
tutto filtrato ed interiorizzato entro il modo di sentire la
musica tipicamente nero.
Un altro importante elemento che avvicina il ragtime al
jazz è il fatto che questo genere musicale si suoni
prevalentemente nei bar di St. Louis, nei teatri di Kansas
City, nei bordelli di New Orleans: importante perché
come nel jazz i musicisti fanno del ragtime, di questo
singolare modo di suonare il pianoforte, il loro lavoro, la
loro fonte di sostentamento. Da sempre, infatti, e
specialmente alle origini, suonare la loro musica è stata,
per i neri, un importante fonte di occupazione libera
nell’ambito delle ristrette possibilità a loro offerte
dall’economia bianca degli Stati Uniti. Figura di spicco del
ragtime è stato Scott Joplin, nato in Texas nel 1868,
principale compositore e pianista, i cui temi sono rimasti
nel patrimonio musicale jazzistico e non.
2 – NEW ORLEANS
La città di New Orleans, sul finire dell’800, era un
insieme di popoli e razze, essendo stata dominata, nel
tempo da spagnoli, francesi, inglesi e anche italiani.
La tradizione vuole che in questa città sia nato il jazz:
ovviamente questa è più che altro una convenzione
legata essenzialmente alla leggenda della musica afro
americana. E’ infatti noto che in molte zone degli Stati
Uniti, praticamente contemporaneamente, il particolare
modo di vivere la musica da parte dei neri era presente
sin da epoche remote.
New Orleans costituì, però, il centro cristallizzante delle
tendenze e degli stilemi originari del jazz.
Nelle sue strade, infatti, da sempre si potevano ascoltare
canzoni popolari inglesi, danze spagnole, marcette alla
francese, bande militari; oppure era molto frequente
sentire nell’aria le più svariate linee melodiche uscire
dalle diverse chiese cattoliche o battiste, metodiste o
puritane: tutti questi suoni mescolati divennero ben
presto patrimonio delle comunità nere che le eseguivano
alla loro maniera, ricollegandole alle antiche tradizioni di
derivazione africana.
Tutte queste forme ed insieme a queste i worksongs che
i neri cantavano nelle campagne durante il lavoro, gli
spirituals nelle funzioni religiose, i blues, si riversarono
tutte assieme nelle originarie e primitive forme del jazz.
Per questo New Orleans rappresentò il centro di
riferimento nel quale le varie tendenze della musica nera
trovarono il loro sbocco naturale dove – elemento
determinante – i primi veri professionisti del jazz
trovarono numerose possibilità di occupazione.
Fino agli anni trenta i principali musicisti di jazz
provenivano da New Orleans e la maggior parte di loro
aveva iniziato lì la sua carriera musicale.
Una delle caratteristiche forse più interessanti di New
Orleans è che nella città convivevano due comunità nere
profondamente diverse tra loro, ognuna con il proprio
patrimonio etnico e culturale: i creoli e quelli che
possiamo definire più genericamente i neri americani.
I creoli, di discendenza franco-coloniale, non avevano
condiviso le medesime origini dalla schiavitù dei neri
americani dal momento che i loro antenati erano stati
liberati molto tempo prima dai ricchi proprietari agrari
francesi.
Per questo sentivano molto più attenuata la originaria
discendenza africana e vivevano con minori remore la
contaminazione con la cultura bianca; anzi, avevano
radicata una profonda discendenza dalla cultura francese
e la loro stessa lingua proveniva dal francese e non era
l’inglese. Così mentre i neri americani costituivano la
parte più povera del proletariato di New Orleans, molti
creoli erano ben integrati nella realtà economico-sociale
della città e avevano una estrazione piccolo borghese; i
loro pregiudizi razziali nei confronti della rimanente
popolazione nera erano addirittura più forti di quelli dei
bianchi.
Questa contaminazione si riflesse ovviamente anche nella
tradizione musicale nera, nella quale i creoli introdussero
molti elementi della cultura musicale franco-europea.
Lo stile di New Orleans nacque dall’incontro tra questi
diversi gruppi: nello Storyville, il quartiere riservato alle
case di tolleranza, che con i suoi innumerevoli locali
costituiva un formidabile punto di ritrovo ed il trampolino
di lancio per i diversi musicisti e cantanti; nelle strade
della città, dove si esibivano le “bands” dei cortei funebri
che accompagnavano i defunti al cimitero suonando
musiche di circostanza e che tornavano in città suonando
musiche colorite e allegre; durante i festeggiamenti del carnevale
Lo stile di New Orleans è caratterizzato dall’esecuzione di
linee melodiche improvvisate in collettivo su semplici e
tradizionali progressioni armoniche, con la presenza
centrale di tre strumenti tromba, trombone e clarinetto
accompagnati da una sezione ritmica, che si inseguono
in un alternarsi di elementi contrappuntisti che si
innestano l’uno sull’altro.
L’elemento ritmico è molto vicino a quello della musica
bandistica di derivazione europea, con gli accenti che
cadono sul primo e sul terzo tempo di una battuta di quattro.
3 – DIXIELAND
Sin dalle origini il jazz non è stato prerogativa dei neri.
Già sul nascere, infatti, numerose “bands” bianche
suonavano alla maniera di New Orleans. La mitica figura
di Papa Jack Lane ci rivela, anzi, che erano frequenti le
“gare” tra bands bianche e nere.
Ma al di là dei contenuti leggendari, i bianchi
contribuirono certamente in maniera considerevole allo
sviluppo lessicale del jazz ed alla sua evoluzione.
Il modo di suonare dei bianchi era più razionale, più
costruito, più individuale, anche se, in molti casi, meno
spontaneo ed istintuale rispetto al modo di suonare dei
neri.
I bianchi del Dixieland rafforzarono la ricerca del suono
pulito, la completezza e la linearità delle linee melodiche
dell’improvvisazione, la riconoscibilità dei temi, la
cantabilità degli a solo e, soprattutto, l’individualità e
l’espressività del solista.
Il monopolio economico dei bianchi, inoltre, contribuì
senza dubbio in modo determinante alla notorietà del
jazz: di bands bianche furono, infatti, le prime incisioni
discografiche e, per un lungo periodo, i bianchi
rivendicarono la paternità del jazz.
Le orchestre come la Original Dixieland Jazz Band o la
New Orleans Rhythm Kings si esibivano con regolarità
nei grandi locali ed avevano più possibilità di quelle nere
di accreditare l’immagine del jazz presso il grande
pubblico. Con il termine Dixieland viene quindi definito il
particolare modo di suonare lo stile New Orleans da
parte dei bianchi.
Quando i confini tra bianchi e neri, almeno a livello
musicale, si attenuarono, con la nascita delle bands
miste, venne finalmente alla luce la vera peculiarità della
musica jazz, ovvero il fatto di essere una musica nata
dall’incontro di due diverse espressioni culturali
americane, quella nera e quella bianca, nel cui tracciato si è sviluppata
Chicago
CHICAGO
Chicago, capitale dell’Illinois, situata sulle rive del lago
Michigan ed importante nodo ferroviario e stradale,
divenne, alla fine del primo decennio del ‘900, il rifugio
dei musicisti che, rimasti senza lavoro a causa della
chiusura dello Storyville di New Orleans (voluta dalle
autorità militari statunitensi all’entrata in guerra degli
U.S.A. per non turbare i militari di leva nella città), vi
trovarono ospitalità nei numerosi club, music-hall e locali,
nell’ambito della più generale migrazione delle
popolazioni nere verso le terre del Nord.
Durante gli anni ’20, l’originario stile di New Orleans
trovò la sua vera fioritura in Chicago, e qui si affermò
definitivamente. Qui, Insieme allo stile di New Orleans
anche il blues trovò negli anni ’20, il suo periodo d’oro.
Nella southside di Chicago, il quartiere nero, si sviluppò
una fervente attività musicale e jazzistica. Qui vennero
incisi i primi capolavori del jazz da parte delle bands
guidate da King Oliver, poi da Louis Armstrong, Johnny
Dodds, Jelly Roll Morton, Jimmie Noone .
Contemporaneamente a questa massiccia affermazione
dello stile di New Orleans a Chicago, un gruppo di
musicisti bianchi, dilettanti e professionisti maturò una
propria interiorizzazione del jazz suonato dai neri, dando
vita ad uno stile proprio, lo stile di Chicago.
Ancora una volta come per il Dixieland, gli elementi della
cultura occidentale e bianca contaminarono
abbondantemente il jazz nero. Partendo dal modello di
improvvisazione collettiva dello stile New Orleans, a poco
a poco, la sensibilità bianca derivata dai modelli musicali
europei e folcloristici dello hillbilly e shiffle introdusse
soluzioni armoniche più raffinate e sempre crescendo, la
valorizzazione dell’elemento solistico che all’apice dello
stile di Chicago, si tradurrà nella preponderanza
dell’improvvisazione del singolo e nella dominazione del
sassofono, nonché nella nascita delle grosse formazioni
(Big Bands ), annunciando il jazz degli anni trenta e lo
stile Swing.
Tra i solisti di spicco: Bix Beiderbecke, Bud Freeman, Pee
Wee Russell, Muggy Spainer.
Chicago fu, dunque, un centro che segnò profondamente
l’evoluzione del jazz e rimase costantemente un
importante punto di riferimento per i musicisti, tanto è
vero che, negli anni ’60, diverrà uno dei più importanti
luoghi in cui si cristallizzeranno le tendenze
d’avanguardia musicalmente e politicamente più radicali
della cultura nero-americana, delle quali l’Art Ensemble
of Chicago rappresenterà il gruppo emblematico.
SWING
Verso la metà degli anni venti gli stili degli anni
precedenti sembravano essere superati e già da più parti
si delineava un nuovo stile che, confluendo con la musica
suonata alla maniera di New Orleans e Chicago diede
origine ad uno dei più importanti momenti del jazz,
quello della sua massima affermazione di pubblico: lo swing
4 – SWING
In quegli anni iniziò la seconda migrazione dei musicisti
che si spostarono da Chicago a New York.
La parola swing per lungo tempo parola chiave del jazz
viene impiegata in due accezioni diverse: swing inteso
come elemento ritmico della musica jazz, difficilmente
riproducibile sul pentagramma e soggetto pertanto ad
una forte personalizzazione da parte dei musicisti; swing
inteso come lo stile musicale degli anni trenta, con il
quale il jazz raggiunse il massimo successo commerciale.
La caratteristica peculiare dello swing è costituita dalla
formazione delle big bands dovuta principalmente alla
esigenza di creare un rilevante volume sonoro sufficiente
alla sonorizzazione dei grossi locali da ballo. Dal 1925 al
1929, nelle città di Harlem e Kansas City, le grandi
orchestre di Duke Ellington e di Fletcher Henderson
impostarono un radicale rinnovamento del jazz, con la
messa a punto del linguaggio orchestrale.
Queste grandi orchestre fissarono le fondamentali
caratteristiche strutturali delle orchestre stesse, formate
da tre distinte sezioni di fiati: trombe, tromboni e
sassofoni in numero variante dai tre ai cinque strumenti
per sezione, oltre ad una sezione ritmica comune anche
ai piccoli complessi, formata da pianoforte, chitarra,
contrabbasso e batteria.
Le orchestre suonavano la loro musica e si
caratterizzavano per la personalità del loro leader il quale
definiva l’impostazione del suono della band attraverso
gli arrangiamenti scritti. Completavano il quadro gli
interventi improvvisati dei solisti, cosicché, l’affermazione
delle big bands corrisponde, allo stesso tempo, alla
affermazione dei migliori solisti.
Tutti questi elementi, già in buona parte presenti, come
abbiamo visto, nello stile di Chicago, trovarono nello
Swing la massima affermazione e diffusione, ed il loro
perfezionamento.
La crisi americana del 1929 costituì una grossa battuta di
arresto per il jazz; in quella occasione molti musicisti
furono costretti a cambiare mestiere o a trovare qualche
impiego nei locali gestiti dai gangsters locali dediti al
controllo della prostituzione ed al traffico clandestino di
alcoolici durante il proibizionismo.
Proprio grazie a queste possibilità, il jazz continuò a
sopravvivere, specialmente nella città di Kansas City,
dove la vita notturna non ebbe praticamente interruzioni
e crisi, nei locali gestiti dai boss della malavita bianca. A
Kansas City si affermarono alcune delle più importanti
grandi orchestre, come quella di Benny Noton o quella di
Count Basie, e trovarono il loro momento di gloria i
grandi solisti Ben Webster, Coleman Hawkins e Lester
Young, o le grandi cantanti come Billie Holiday.
Kansas City vide nascere una vera e propria scuola
solistica che formerà alcuni dei grossi nomi del jazz
moderno, uno tra tutti: Charlie Parker.
Bisognerà comunque attendere il superamento della crisi
economica per assistere al rilancio in grande stile del
jazz, quando, verso la metà degli anni trenta, raggiunse
con lo Swing il suo culmine commerciale, segnando
contemporaneamente la sua decadenza, logorato dal suo
stesso successo, nel momento in cui le esigenze di
cassetta soppiantarono la spontaneità e la vitalità delle
origini.
5 – BEBOP
Quando l’insoddisfazione dei solisti per il ristretto ambito
loro concesso nelle big bands, raggiunse il culmine,
questi si ritrovarono a cercare rifugio, al termine del
lavoro in orchestra, nei piccoli jazz-club, che nel
frattempo si erano moltiplicati, proponendo ogni sera le
loro performance; lì, superando gli stereotipi musicali a
loro imposti dalle esigenze del pubblico, prepararono la
prima vera grande rivoluzione, non solo stilistica, ma
anche culturale, del jazz.
Nei piccoli clubs di Harlem il Monroe’s o il Minton’s ad
esempio dopo il lavoro regolare nelle orchestre, molti
solisti si riunivano in piccole formazioni con le quali
sperimentavano nuove soluzioni armoniche e nuovi
arrangiamenti, con l’intento di superare l’insoddisfazione
delle limitazioni e costrizioni subite nelle big bands.
Così si sviluppò un movimento musicale che, partendo
dalla esigenza di individuare nuove forme di espressione,
si trovò alle prese con l’ambizioso progetto di conferire al
jazz la qualifica di forma d’arte a tutti gli effetti, al di
fuori dello showbussiness legato allo Swing e ai gusti del
pubblico, affermando, al contempo, la pretesa del popolo
nero e delle classi emarginate della società americana di
accreditare la propria cultura ed il superamento dei
pregiudizi razziali.
Quello dei boppers divenne un vero e proprio movimento
culturale e di tendenza che accumunava le posizioni di
“elitismo” artistico dei musicisti neri, all’esistenzialismo
delle giovani generazioni americane che si ribellavano al
mondo borghese, razzista e perbenista delle generazioni
precedenti.
Un movimento che si esprimeva non soltanto con la
musica, ma anche con una propria originale immagine
che si traduceva nell’imitazione di modelli di vita senza
regole e limitazioni, il cui riferimento era costituito dal
personaggio emblematico del bop, Charlie Parker.
Anche il nome del nuovo stile esprimeva in sé questi
elementi. La parola be-bop infatti, può essere riferita
tanto al suono onomatopeico dell’intervallo di quinta
diminuita, tipico delle nuove armonizzazioni utilizzate dai
boppers, quanto, nel linguaggio gergale della gioventù
outs, rissa, coltellate o meglio ancora, rivolta
(J.E.Berendt, Il libro del jazz, pg. 22).
Intorno all’idea di rivolta nei confronti dello Swing
commerciale e di una radicale trasformazione delle
intenzioni dei musicisti, si formo’, con i contributi più
disparati e senza un organico programma, uno stile dal
fraseggio nervoso e frammentato, basato sulla
disintegrazione della melodia, giocato su velocissimi
cromatismi, nuove soluzioni armoniche e ritmiche
furiose. Ciò provocò la reazione immediata del pubblico,
disorientato dal nuovo linguaggio proposto dai boppers,
e non ancora pronto all’impatto con l’ideologizzazione
della musica, specialmente il pubblico dei neri. Il
superamento degli stereotipi dello Swing si tradusse,
così, in un ritorno al jazz delle origini, con una rilevante
rifioritura, non soltanto americana, dello stile New
Orleans e del Dixieland. Ma per i musicisti, al di là del
messaggio ideologico, il ricco patrimonio innovativo del
be-bop non poteva che costituire un momento di
importante riflessione e la possibilità di percorrere nuove
strade espressive.
6 – COOL JAZZ
Esaurita la spinta ideologica che aveva sostenuto la
trasformazione radicale imposta dal be-bop, il jazz
moderno entrò in una fase di assestamento nella quale si
stabilizzarono gli elementi e le nuove concezioni
armoniche introdotte.Verso la metà degli anni cinquanta,
la schizofrenia be-bop lasciò il posto a soluzioni più
razionali ed equilibrate; venne riscoperto, in primo luogo,
il contenuto melodico del jazz, che il be-bop aveva fatto
a pezzi, ed una dimensione più rilassata delle ritmiche, in
netta antitesi con i frenetici tempi staccati dai vari Charlie
Parker e Dizzy Gillespie.
Accanto a questi elementi squisitamente musicali, la
necessità, per chi della musica faceva la propria
professione, di recuperare il pubblico perduto, impose le
nuove tendenze stilistiche del jazz degli anni cinquanta.
La concezione cool del jazz, si impose ad opera di alcuni
personaggi chiave per il suo sviluppo e per la sua
evoluzione.
Da un lato, il nero Miles Davis.Davis, che giovanissimo si
era formato alla scuola di Parker, nella cui band aveva
sostituito Gillespie alla tromba, imponendosi, già da
allora, come brillante promessa, fu, probabilmente, il
primo musicista nero ad avvertire la necessità di un
ripensamento dei radicalismi del be bop in una chiave più
proponibile al grande pubblico.
Le sue incisioni degli anni cinquanta rimangono una
importante e decisiva testimonianza dello sforzo
compiuto per individuare una soluzione espressiva di
ampio respiro estetico, che abbracciasse, oltre che la
tradizione jazzistica, la tradizione musicale colta ed
europea.
Una direzione di ricerca che percorre un sentiero che
attraversa tutta la tradizione complessiva della musica
afroamericana e che va da Bix Beiderbecke a Lester
Young, da Red Norvo alle piccole formazioni dirette da
Benny Goodman.
Da un altro versante, il pianista bianco Lennie Tristano,
con la sua New School of Music e i musicisti che si
formarono in essa: Lee Konitz, Warne Marshe, Billy
Bauer.
Queste tendenze, alle quali si può riconoscere l’intento di
ricerca, assieme alle esperienze più spontanee di Gerry
Mulligan, di Dave Brubeck, del jazz da camera del
Modern Jazz Quartet di John Lewis e Milt Jackson,
costituiscono il movimento cool.
La sintesi dell’esperienza davisiana e di quella più
propriamente cool comporta la nascita, sulla costa
occidentale della California, di una corrente stilistica,
prevalentemente bianca, denominata, appunto, West
Coast, che tra il 1952 ed il 1958 vide in primo piano
l’orchestra di Stan Kenton e solisti come Shelly Mann,
Shorty Rogers, Jimmy Giuffre, i quali proposero una
musica che non obbediva ad alcuna regola ben definita,
ma che contiene elementi unificanti e riconoscibili, tali da
determinarne una caratterizzazione stilistica peculiare.
7) HARD – BOP
I contenuti e gli approcci classicheggianti del cool e della
West Coast, provocarono la reazione dei musicisti neri, i
quali, ad eccezione di Miles Davis e John Lewis, si
ritrovarono imbrigliati in questa nuova concezione
musicale.La loro reazione, fu indirizzata al recupero delle
caratteristiche più marcatamente nere del jazz: le
influenze gospel e blues, l’immediatezza, in contrasto con
il jazz arrangiato del movimento cool, e soprattutto la
scansione ritmica.
Accanto alle semplici progressioni tipiche, trovarono
spazio le soluzioni armoniche del be-bop ed i temi
tradizionali che si aggiunsero alle composizioni originali.
Questa tendenza stilistica viene denominata Hard-bop e
presenta, quali elementi qualificativi, le denominazioni
concorrenti di East Coast Jazz per indicarne la
contrapposizione con lo stile West Coast di Funky per
esaltarne le commistioni con il blues ed il gospel o
ancora di post-bop per metterne in risalto la più
immediata derivazione dal be-bop rispetto allo stile cool.
Dal punto di vista melodico ed armonico, l’hard-bop
appare caratterizzato dalla bluesizzazione dei temi,
attraverso strutture armoniche che esaltano il rapporto
sottodominante-tonica (IV-I) tanto nel modo maggiore,
quanto nel modo minore, e dall’utilizzo di sezioni ritmiche
più omogenee e agili di quelle be-bop.
Le formazioni guida del periodo sono il quintetto con sax
e tromba (Quintetto di Clifford Brown e Max Roach ), o il
sestetto con sax, tromba e trombone (Jazz
Messengers di Art Blakey, Jazztet di Benny Golson e Art
Farmer).
8 -MODALE
Le esperienze cool e hard-bop si imposero in modo
uniforme nel panorama jazzistico per tutto il corso degli
anni cinquanta, fino a divenire, nei diversi atteggiamenti
assunti dai vari gruppi operanti, un aggregato stabilizzato
di tutti gli elementi musicali radicalmente innovativi
introdotti dal be-bop e dei più classici contenuti del jazz
pre-bop.
Con la sedimentazione di tali elementi, che diventano
propri del jazz moderno, arrivò ben presto, comunque, la
stereotipizzazione e la monotonia. Quando, ancora una
volta, la ossessiva ricerca di diversi ambiti di espressione
da parte dei musicisti diventerà una esigenza pressante,
la sperimentazione di nuove soluzioni arriverà attraverso
il lavoro di Miles Davis coadiuvato dal sassofonista tenore
del suo quintetto, John Coltrane.
Con Milestone (1958) Davis introduce, nelle esperienze
congiunte di cool e hard-bop, la concezione modale, che
si caratterizza per l’impiego di armonizzazioni povere,
basate su lunghe sequenze di uno o due accordi sulle
quali si improvvisa utilizzando melodie elaborate su modi
o scale costruiti al di fuori delle due principali modalità:
maggiore e minore.
L’impiego di questi semplici schemi armonici consente al
solista di superare la monotonia delle melodie costruite
sulle tradizionali progressioni armoniche tonali,
rendendolo contemporaneamente più libero di spaziare a
proprio piacimento entro la costruzione dei modi e senza
la limitaziòne di una vincolante struttura di accordi.
L’esperimento di Davis con Milestone verrà portato a
compimento con un’opera fondamentale che segnerà un
momento importante per l’evoluzione stilistica ed un
altrettanto importante spartiacque tra le due tendenze
musicali degli anni sessanta.
L’opera in questione è Kind of Blue (1959), dove le
intuizioni di Davis e Coltrane trovarono, attraverso il
contributo del giovane pianista bianco Bill Evans, la loro
giusta collocazione ed una sistemazione organica e
definitiva, oltre ad un risultato estetico tra i più
apprezzabili in tutto il panorama musicale jazzistico. Da
Kind of Blue, due strade saranno percorse
successivamente. La modalità, mescolata ai modi abituali
più classici ed al sistema tonale, sarà sviluppata da Bill
Evans e, filtrata dalla sua immensa sensibilità e dal suo
senso estetico, diverrà patrimonio di giovani musicisti
come Herbie Hancock, Chick Corea, Keith Jarrett, Gary
Burton e nuovo terreno fertile per quei musicisti formatisi
nell’esperienza cool, come il chitarrista Jim Hall.
Su un altro versante il jazz intraprese la strada del free
jazz.
9) FREE JAZZ
L’approfondimento radicale degli elementi modali
introdotto nel jazz porterà alcuni solisti a raggiungere
dimensioni sempre più libere e meno convenzionali, sulle
orme del sassofonista John Coltrane.
In ogni caso, dopo gli anni settanta, la modalità diverrà
parte integrante del jazz contemporaneo, stemperandosi
nelle diverse concezioni stilistiche, dal free alla fusion.
Nel 1960 Ornette Coleman utilizzò per primo la accezione
di Free Jazz, incidendo, con quel nome, uno storico
album nel quale due quartetti contrapposti, partendo da
una modalità e da una scansione ritmica predeterminate,
improvvisano liberamente svincolandosi, mano a mano,
dalle stesse.
Da questo esperimento, si svilupperà una tendenza che,
cercando la rottura completa ed incondizionata con
quanto fatto in precedenza nel jazz – stili, forme e
strutture – cercherà la propria strada al di fuori
dell’armonia e della ritmica prestabilite, lasciando al
solista unicamente la sua più libera improvvisazione.
Accanto al discorso musicale, ancor più che nel bebop,
ancora una volta troviamo la presa di coscienza,
l’evoluzione della condizione, la lotta per l’emancipazione
del popolo nero.
Un popolo nero che è convinto di dover incidere in
maniera netta e determinata nella società americana,
troncando definitivamente ogni legame con quella
società, fino al suo completo superamento. E’ il periodo
dei grandi movimenti neri di Martin Luther King e di
Malcolm X.
L’atteggiamento si traduce, in campo musicale, nella
demolizione di forme e schemi, nella ricerca delle origini
del jazz e nel recupero del gusto, dell’entusiasmo,
dell’immediatezza di quelle origini, come nel caso
dell’improvvisazione collettiva che diviene momento
coagulante della rabbia del singolo, nella rabbia e nel
grido collettivo del blackpower.
Oltre a questo, esiste la convinzione del rinnovamento
possibile soltanto attraverso il taglio netto con le
influenze musicali bianche. La rivolta investe i temi, i
ritmi segnati, la tecnica strumentale accademica, visti
come elementi di costrinzione alla voglia di gridare la
propria liberazione. Insomma, un radicale mutamento di
atteggiamento verso la musica.
Se nel be-bop, infatti, l’atteggiamento rivoluzionario si
tradusse nella individuazione di nuove forme che
esaltassero la trasgressività, il movimento free non ha
bisogno di essere trasgressivo, ma di abbattere la forma:
non rifiuta il sistema collocandosene ai margini, ma lo
combatte, per il suo definitivo annientamento.
Entro i confini del free operarono le più diversificate
esperienze, proprio per la necessità di consentire a
ciascuno di fare i conti solo ed esclusivamente con la sua
sensibilità.
Ovvio che il risultato non può che riflettere tale
sensibilità: è apprezzabile quando il solista è artista e gli
esempi non mancano: Don Cherry, Cecil Tylor, Ornette
Coleman, Pharoah Sanders, Albert Ayler; difetta, quando
la mancanza di una progettualità non è neanche
adeguatamente supportata da una grande capacità
inventiva e comunicativa. Paradossalmente, il movimento
free non abbracciò il pubblico nero, tradendo le
intenzioni dei musicisti free ed i loro propositi di
costituire un terreno musicalmente unificante della
cultura nera.
10 – JAZZ ROCK
Il pubblico nero, nel periodo più alto del free, si era
allontanato dal jazz, avvicinandosi a forme musicali di più
diretta derivazione nera, quali il blues, il rhythm & blues,
o di più immediata fruibilità, quale è il rock.
Il free divenne, invece, prerogativa dei movimenti
giovanili bianchi e delle loro lotte studentesche e
rivoluzionarie di fine anni sessanta. Ancora una volta fu
Miles Davis ad intuire che l’intento di recuperare il
pubblico nero al jazz doveva passare necessariamente
attraverso l’avvicinamento del jazz alla musica rock.
Dopo l’esperienza di Kind of Blue il trombettista percorse
varie strade, con l’intento di rinnovarsi periodicamente e
di incontrare costantemente il favore commerciale. Molti
solisti si avvicendarono nelle diverse formazioni da lui
capitanate, tentando, di volta in volta, soluzioni
compromissorie ora con il modale più spinto, ora con il
free. Erano percussionisti latino-americani, musicisti della
pop-music, pianisti elettrici, batteristi free.
Attraverso l’utilizzo della strumentazione elettrica, dei
tempi rock e latini, di temi presi in prestito dalla popmusic,
Davis effettuerà una mirata scelta attraverso la
quale si confronteranno tra loro esperienze le più
diversificate e fascie di pubblico eterogenee, indirizzando
il jazz verso una nuova stagione felice e verso risultati
creativi notevoli.
11) FUSION
Il panorama jazzistico che ci troviamo di fronte in questi
ultimi anni è frutto di un lungo lavoro di mediazione e
contemperamento delle diverse esperienze passate.
Le nuove tendenze del jazz degli anni ottanta raccolgono
il contributo del notevole cammino evolutivo compiuto
dal jazz in un periodo di tempo relativamente breve,
fornendoci un insieme stratificato e poliforme.
Accanto agli sviluppi della modalità contaminata da
elementi classici convivono innumerevoli forme di
contaminazione del jazz con altre forme musicali, che
sarebbe riduttivo ricondurre ad una peculiare
connotazione stilistica. Per questo si e preferito
denominare fusion queste esperienze, abbandonando la
formula jazz rock usata nel decennio precedente.
L’ascoltatore si trova a contatto alle molte strade della
possibile linea evolutiva della musica jazz, senza essere
in grado di individuare con certezza quale sarà quella
vincente.
Quelle più interessanti provengono dall’utilizzazione
dell’elettronica, attraverso la quale sembra che il jazz si
sia rivitalizzato. Il riferimento immediato è a Pat
Metheny, a Michael Breacker e, ancora una volta, a Miles
Davis, la cui ultima produzione, sicuramente pregevole, è
stata il sintomo della sua immensa capacità di cogliere gli
elementi qualificanti in grado di conferire al jazz la spinta
evolutiva della quale, forse, si comincia a
sentire il bisogno, dal momento che si ha sempre
bisogno che il nostro amore si ravvivi
12 ACID JAZZ
E’ qualche tempo che, nel panorama musicale, circola la
definizione di acid jazz. Che cosa è l’acid jazz? E’ uno
stile musicale funky che incorpora elementi di jazz, funk
degli anni ’70, hip-hop, soul e tante altre cose. Un fritto
misto, dunque, che, rielaborando il concetto di fusion,
punta alla integrazione di ogni possibile elemento
musicale contemporaneo, contrapponendosi, però, a
quella tendenza del Rap che su basi di musica jazz gioca
con le parole: il vero interesse dell’acid jazz è la
componente musicale.
In ogni caso, è pressoché impossibile, al momento, dare
una definizione precisa di acid jazz, dal momento che la
proposta dei vari gruppi emergenti che si riconoscono
nella definizione, è estremamente articolata e
differenziata. Non resta che ascoltare
ALBUM CONSIGLIATI
John Coltrane: A Love Supreme (Impulse!, 1964)
Charles Mingus: The Black Saint And The Sinner Lady
(Impulse!, 1963)
Albert Ayler: Witches and Devils (Freedom, 1964)
Cecil Taylor: Unit Structures (Blue Note, 1966)
Miles Davis: Kind Of Blue (Columbia, 1959)
Don Cherry: Mu (BYG Actuel/Get Back, 1969)
Anthony Braxton: Saxophone Improvisations (America, 1972)
John Coltrane: Giant Steps (Atlantic, 1959)
Ornette Coleman: The Shape of Jazz To Come (Atlantic, 1959)
Eric Dolphy: Out to Lunch (Blue Note, 1964)
Lennie Tristano: Crosscurrents (Capitol, 1949)
Miles Davis: Bitches Brew (Columbia, 1969)
Thelonious Monk: Brilliant Corners (Riverside, 1956)
Charles Mingus Pithecanthropus Erectus (Atlantic, 1956)
Albert Ayler: Vibrations (Debut, 1964)
John Coltrane: My Favorite Things (Atlantic, 1960)
Ornette Coleman: Free Jazz (Atlantic, 1960)
Charles Mingus: Presents (Candid, 1960)
Anthony Braxton: Alto Saxophone Improvisations (Arista,
1979)
Sonny Rollins: Saxophone Colossus (Prestige, 1956)
David Holland: Conference of the Birds (ECM, 1972)
George Russell: Ezz-thetics (Riverside, 1961)
Weather Report: I Sing the Body Electric (Columbia, 1972)
Borbetomagus: Barbet Wire Maggot (Agaric, 1983)
George Russell: Electronic Sonata For Souls Loved By Nature
(Soul Note, 1980)
Andrew Hill: Point of Departure (Blue Note, 1964)
Charles Mingus: Oh Yeah (Atlantic, 1961)
Gato Barbieri: Latin America (Impulse!, 1973)
Charles Earland: Black Talk (Prestige, 1969)
John McLaughlin: My Goals Beyond (Columbia, 1970)
Matthew Shipp: Circular Temple (Quinton, 1990)
Archie Shepp: Mama Too Tight (Impulse!, 1966)
Roscoe Mitchell: Sound (Delmark, 1966)
Max Roach: Freedom Now Suite (Columbia, 1960)
Coleman Hawkins: Body & Soul (RCA Victor, 1939)
Bobby Hutcherson: Dialogue (Blue Note, 1965)
Michael Formanek: Wide Open Spaces (Enja, 1990)
Charles Mingus: Tijuana Moods (1957) (RCA, 1962)
Steve Lacy: Regeneration (Soul Note, 1982)
Miles Davis: Birth of the Cool (Capitol, 1949-50)
Randy Weston: Blues To Africa (Freedom, 1974)
Sam Rivers: Crystals (Impulse!, 1974)
Albert Ayler: Spiritual Unity (ESP, 1964)
McCoy Tyner: Sahara (Milestone, 1972)
Steve Lacy: Scraps (Saravah, 1974)
Matthew Shipp: Pastoral Composure (Thirsty Ear, 2000)
Duke Ellington: The Far East Suite (RCA, 1966)
Sonny Rollins: Freedom Suite (Riverside, 1958)
Don Cherry: Symphony For Improvisers (Blue Note, 1966)
Pat Metheny: As Falls Wichita So Falls Wichita (ECM, 1980)
Paul Motian: Conception Vessel (ECM, 1972)
Chick Corea: Inner Space (Atlantic, 1966)
Bill Frisell: Before We Were Born (Elektra, 1988)
Ralph Towner: Diary (ECM, 1973)
Martial Solal: Four Keys (Pausa, 1979)
Charlie Haden: Haunted Heart (Verve, 1991)
Oregon: Music Of Another Present Era (Vanguard, 1972)
Charlie Haden: Etudes (Soul Note, 1987)
Terje Rypdal: Eos (ECM, 1983)
Don Cherry: Orient (BYG, 1971)